22 Febbraio 2017
La città di Firenze è stata culla di due grandi rivoluzioni artistiche, il Rinascimento e il movimento Radical. Quest’ultima è stata la perfetta antitesi della prima, e certamente non è un caso che entrambe siano nate nello stesso luogo. La società rinascimentale aspirava all’utopia della città ideale attraverso i principi del rigore formale. L’idea era quella di una città organizzata secondo metodi scientifici: il disegno urbanistico avrebbe rispettato le regole geometriche, la simmetria e le proporzioni, tutto sarebbe stato organizzato seguendo i lumi della ragione. Firenze è stata il fulcro della prima vera esperienza razionalista nella storia dell’umanità. Le piazze, i vicoli, i palazzi di Firenze costruiti in quel periodo storico sono un continuo richiamo al rigore geometrico. Ancora oggi, qualsiasi intervento – anche temporaneo – che possa essere visto come “estraneo” a questa logica suscita attacchi feroci da parte degli abitanti che sentono il compito storico di difendere l’equilibrio estetico della loro città ideale. Hanno scatenato “furiose battaglie” la scultura di Jeff Koons in Piazza Signoria, l’installazione dei gommoni rossi dell’artista Ai Weiwei sulla facciata di Palazzo Strozzi, l’opera di Gaetano Pesce posizionata di fianco alla chiesa di Santa Maria Novella. Solo per citare alcuni esempi dell’ultimo anno.
Studiare Architettura a Firenze nella metà degli anni Sessanta voleva dire vivere il clima di contestazione giovanile che stava montando, ma voleva anche dire poter seguire le lezioni di professori come Gillo Dorfles, Ludovico Quaroni e Umberto Eco, poi rivelatisi dei veri rivoluzionari per la teoria del design. In questo luogo si creò una singolare miscela esplosiva: da una parte una città monolitica, cristallizzata, ideale, e dall’altra la spinta forte di giovani studenti intellettualmente pronti a proporre una nuova idea di futuro, non più inteso come sviluppo lineare, ordinato, illuminista. Si cominciò a immaginare una modernità che sarebbe stata meno ordinata, ma non per questo più povera di bellezza, anzi, di quella irregolarità ci saremmo arricchiti tutti. Nuovi linguaggi espressivi si opponevano all’ordine e al rigore formale. Il kitsch contestava un grigiore borghese fatto di oggetti freddi, clinici, minimali. Lavorarono con queste premesse una serie di personalità e di gruppi: Archizoom Associati, Superstudio, gruppo UFO, Ugo La Pietra, Gianni Pettena, Remo Buti e altri. Firenze, capitale storica del Rinascimento divenne, per contrapposizione, capitale della contestazione ai principi rinascimentali. Germano Celant battezzò questa avanguardia artistica con il termine Radical.
I protagonisti dei gruppi radicali sono tutti architetti, le visioni che propongono hanno sin dall’inizio un’impronta visionaria di tipo urbanistico-architettonico. La cultura architettonica italiana è stata sempre molto refrattaria a recepire le istanze di questi gruppi, rifugiandosi spesso nel linguaggio accademico. Non è un caso che gran parte delle idee radicali verranno riprese da architetti stranieri come Rem Koolhaas, Frank Gehry, Hans Hollein, Toyo Ito e altri. L’Italia riconoscerà come figure di spicco cattedratici come Franco Purini, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, che delle istanze radical fecero al massimo un uso estetico piuttosto che contenutistico. In questo contesto, i giovani Radical trovarono spazi più aperti nel design, un ambito in cui non esisteva ancora una scuola strutturata (le prime facoltà di disegno industriale in Italia nasceranno più tardi). Nella metà degli anni Sessanta diverse piccole imprese erano interessate a creare nuovi prodotti per poter intercettare i mercati ancora inesplorati dalle grandi aziende tradizionali. Poltronova, Cassina, Gufram, B&B Italia e altre diedero spazi e possibilità di sperimentare a giovani neolaureati un po’ alternativi. Un azzardo che venne bene ripagato. Per questi giovani designer il palazzo d’inverno dell’ortodossia razionalista era la Scuola di Ulm, fondata in Germania nel dopoguerra (1953). A essere messi in discussione erano i principi del Bauhaus, e l’idea degli “oggetti definitivi” capaci di risolvere una volta per tutte i problemi di funzionalità ed estetica. Saranno invece gli oggetti a differenziarsi e ad assecondare l’uomo, non il contrario. Un esempio è il progetto Superonda (Archizoom Associati, 1967), un prodotto che si può trasformare con estrema facilità in divano, oppure chaise longue, o letto, favorendo posizioni del corpo disordinate, scomposte, rilassate. Questo modo di interpretare la progettazione industriale si inserisce in una peculiarità tutta italiana. Al rigore protestante del nord Europa, l’Italia ha sempre opposto una visione cattolica dai precetti più morbidi e concilianti, perdonandosi ostentazioni ed eccessi. Anche i designer italiani più vicini all’esperienza razionalista come Enzo Mari, Angelo Mangiarotti, Vico Magistretti e Bruno Munari erano inclini all’utilizzo di forme sì rigorose, ma proiettate verso una forte espressività formale. I Radical fecero esplodere quell’espressività e contribuirono a determinare il successo internazionale del design italiano. Ancora oggi, gran parte delle esperienze progettuali sono state la diretta conseguenza di questa incredibile ondata innovativa.
Gli eredi diretti delle sperimentazioni radical saranno i gruppi Alchimia (1976), e poi Memphis (1981-1987). I due famosi collettivi imposteranno un lavoro partendo dall’idea di un mercato non più inteso come unicum, ma come insieme di tante individualità differenti tra loro. Compito del design è comunicare le differenze e rifuggire l’omologazione. Vengono portate alle estreme conseguenze le possibilità espressive degli oggetti, arrivando anche a negarne gli aspetti funzionali. Un divano può essere scomodo, ma non può rischiare l’anonimato. L’ideale funzionalista “La forma segue la funzione” si trasforma in “La forma segue l’espressione”. I prodotti sono iper-colorati, aggressivi. Le forme sono provocatorie, eccentriche, postmoderne. Soprattutto nell’esperienza di Memphis, fortemente carismatica fu la figura di Ettore Sottsass e la sua idea di design intimista. Sarà lui, prima di tutti, a capire le potenzialità innovative del movimento radicale. Il suo interesse era quello di indagare il rapporto antropologico che l’utente ha con gli oggetti:
“Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un’industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita”1.
Il limite di queste esperienze sarà l’allineamento a uno stile, quello mendiniano per Alchimia e quello sottsassiano per Memphis. Non si arriverà mai a proporre tanti linguaggi quante furono le personalità che fecero parte di questi gruppi, poiché le due guide spirituali fagocitarono tutti gli altri. Grazie a Mendini e a Sottsass, però, la lezione radicale riuscì per la prima volta a codificare un lessico autonomo di vera e credibile opposizione al design minimale.
Nel 1985 nasce a Firenze il gruppo King-Kong. Ne fanno parte Stefano Giovannoni e Guido Venturini, entrambi allievi di Remo Buti (cofondatore negli anni Settanta del gruppo di architettura radicale Global Tools). Quasi tutti i loro prodotti vengono realizzati dall’azienda Alessi, che comincia così a sperimentare una produzione nuova rispetto alla precedente. Il loro è un design ludico e colorato. Gli oggetti diventano divertenti e non pretendono di essere eterni ma, anzi, possono cambiare al variare dei gusti. Questo modo di progettare aspira a una “gadgetizzazione” del prodotto, arrivando alla produzione incessante – e un po’ logorroica – di forme sempre nuove. La vera differenza rispetto alle prime esperienze radicali è l’assenza di ogni implicazione intellettuale o filosofica. Missione di Ulm era educare la società di massa attraverso la produzione di buone forme. Per i Radical degli anni Sessanta e Settanta confrontarsi con la cultura pop voleva dire porsi ideologicamente contro l’oggetto pedagogico. Negli anni Ottanta e Novanta, invece, si progettano oggetti provocatori perché il mercato li recepisce positivamente. Il design diventa disimpegnato, perde le implicazioni ideologiche che lo hanno caratterizzato nel ventennio precedente.
Il Bolidismo, movimento fondato da sedici architetti (tutti ex studenti della facoltà di Architettura di Firenze) fu il tentativo di unire le ultime due avanguardie italiane, quella Radical e quella Futurista. La ricerca sul dinamismo delle forme coniugato con il linguaggio pop dei fumetti americani ebbe un buon riscontro mediatico, ma si avviluppò velocemente in un estetismo fine a se stesso, senza grandi implicazioni negli anni a venire. Furono le star del design degli anni Novanta ad attingere a piene mani dall’esperienza radicale: Philippe Starck, Karim Rashid, Ron Arad hanno sempre ammesso la forte influenza del design italiano nel loro lavoro. È Radical prendere uno spremi agrumi, privarlo di qualsiasi valore funzionale e trasformarlo in un oggetto puramente iconico e scultoreo (Philippe Starck, Juicy Salif, 1990). Il prodotto acquisisce valore in quanto icona e diventa icona in quanto perde la sua funzione. Il designer diventa personaggio, il suo modo di vivere è simile a quello di un divo e le aziende si contendono le firme delle nuove star. Questi designer affermeranno in varie interviste che il loro è un “mestiere inutile”: con questa frase, oltre all’intento chiaramente provocatorio, sottolineeranno il diritto di occuparsi dell’effimero, del superfluo. L’espressione “di design” comincia a sottendere un oggetto esuberante, eccentrico, eccessivo. Il design sembra rappresentare magnificamente un nuovo clima disinvolto e orgogliosamente libero.
Altro diretto discendente di questo mondo è il designer Fabio Novembre, che si distingue per il suo gusto scenografico, teatrale. La forza degli oggetti è quella di riuscire a creare storie. Spesso i progetti sono chiare operazioni comunicative volte alla ricerca dell’effetto wow, per conquistare le copertine dei magazine. Anche Fabio Novembre vive la sua professione da personaggio mediatico, cimentandosi pure come intervistatore, opinionista, scrittore e allestitore. Qualcosa in più rispetto ai suoi colleghi.
Con il nuovo secolo si va lentamente ad esaurire lo star system degli anni Novanta e i designer, non dovendo più calcare la mano, proveranno a trovare un dialogo tra funzionalismo ed esigenze espressive. Ronan & Erwan Bouroullec fondano l’omonimo studio francese nel 1998. La loro è una ricerca che media tra tecnica e natura, tecnologia e poesia. Dai Radical hanno attinto l’idea di una forma emozionante, senza gli eccessi che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta. Andrea Branzi (ex Archizoom), parlando del suo periodo giovanile, racconta2 di una “generazione esagerata” e dell’esagerazione come condizione necessaria per reagire alla cultura borghese del tempo. C’era allora il bisogno di forzare fino al paradosso le forme e i contenuti: i fratelli Bouroullec sentono al contrario la necessità di trovare un equilibrio e di non esasperare mai i toni, che vengono mantenuti equilibrati.
Diretta discendente di Giovannoni sarà Miriam Mirri. Dall’esperienza dei King-Kong trae un design in cui il segno, inteso come disegno, continua ad avere un’impronta molto forte. Come Giovannoni, utilizza colori e inventa personaggi antropomorfi, ma il suo non è un design di rottura, bensì un dialogo con il mondo dei ricordi sempre alla ricerca di un linguaggio poetico e raffinato. Il rapporto che instaura con gli oggetti è quello che si ha da bambini, quando un imbuto può diventare la faccia di Pinocchio, o una abat-jour è l’angelo protettivo nella propria cameretta. La forza dei suoi progetti sono le metafore. Mai nessuna provocazione, piuttosto una leggera ironia. Nessun difficile intellettualismo, ma rimandi a cose che tutti abbiamo, i ricordi dell’infanzia, il mondo dei giochi e dell’immaginazione.
Nello stesso periodo, dalla Francia, i 5.5 Designers propongono un design ironico, divertito. Possono ideare una pen drive giocando con la forma iconica della chiave (USB 5.5, 2009), proporre una seduta effimera fatta di sabbia (Sand Furniture, 2004) oppure progettare un sistema autocomponibile di mobili costituito da semplici morsetti (Half of Retail Fixtures, 2010). Dall’onda lunga dei Radical hanno appreso lo spirito provocatorio, scanzonato, antidogmatico. Attenzione, non sono quattro ragazzi che fanno dei “progetti alternativi”: lavorano per importanti aziende multinazionali (Nespresso, Veuve Clicquot, LaCie, McDonalds) proponendo soluzioni creative con un alto tasso di “radicale” ironia.
Il movimento Radical ha sempre auspicato un design dalla coscienza sociale. L’idea era quella di un design diffuso capace di dare sapere progettuale a tutta la società. A partire dal 2009, l’esperienza del gruppo Recession Design è stata una risposta a questa visione. Una quarantina di designer decidono di progettare oggetti o soluzioni di arredo come sedie, scrivanie, librerie, appendiabiti realizzabili da tutti con materiali facilmente reperibili nei negozi di bricolage. Pezzi che qualsiasi persona può facilmente costruire con le proprie mani, con la possibilità di poterli adattare, o migliorarli, condividendone i risultati con gli altri. Tutti i progetti, con tanto di foto e descrizioni tecniche sono liberamente scaricabili dal sito o fruibili dal libro Design fai da te 2.0 (Rizzoli, 2013). Ipotizzare una disintermediazione dell’azienda da parte di una società ormai consapevole del fare progettuale è sempre stata una delle visioni del movimento Radical e forse non è un caso che tra i designer di questo progetto vi sia anche Carmine Deganello, figlio di Paolo Deganello (Archizoom).
L’esperienza del movimento Radical è stata tra le più importanti mai avute in Italia, ha anticipato i temi della postmodernità ipotizzando prima di Bauman l’idea di una società liquida. Il tema che il design del futuro dovrà affrontare non sarà tanto quello di avere o meno un rapporto positivo con l’industria, quanto semmai se il sistema industriale sia ancora un sistema di riferimento obbligato. Temi come l’autoproduzione o la progettazione dei processi immateriali saranno le sfide del nuovo design. Parecchi anni fa mi venne detto: “Tommaso, mi sa che hai troppa fiducia nell’industria”. Quella persona si chiama Gilberto Corretti, è un ex componente del gruppo Archizoom e forse anche questa volta aveva ragione lui.
Note
1 Max Bill, Ettore Sottsass, Jr. (domande a), “Design and Theory: Two Points of View”, in Design Since 1945, edited by Kathryn B. Hiesinger and George H. Marcus, New York, Rizzoli 1983 (catalogo pubblicato in occasione della mostra omonima al Philadelphia Museum of Art, ottobre 1983 – gennaio 1984), p. 3.
2 Andrea Branzi, Una generazione esagerata. Dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini & Castoldi 2014.