8 Giugno 2018
Chiara Alessi è una critica a cui piace riflettere sugli aspetti culturali del progetto, e con questo libro, Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano, sembra volerci dire che il design può essere uno strumento molto sottile di analisi sociale: a volte basta saper osservare come utilizziamo o percepiamo gli oggetti di tutti i giorni per capire chi siamo. In questo caso, lo spunto viene dalla cronaca: l’incontro avvenuto a Roma, nel gennaio del 2016, tra l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il CEO di Apple, Tim Cook. In quell’occasione Renzi regala a Cook una versione contemporanea della moka Bialetti, come esempio di icona del design italiano. La moka venne ideata da Alfonso Bialetti nel 1933 e si perfezionò col tempo fino a diventare, grazie alle intuizioni del figlio Renato, a partire dagli anni Cinquanta, il prodotto di straordinario successo che tutti conosciamo (nota: al successo contribuì l’omino coi baffi, inventato dal fumettista Paul Campani e raffigurante Renato Bialetti, vero tormentone negli anni del Carosello).
L’autrice evidenzia prima di tutto un fatto: la moka Bialetti è riuscita a mantenere intatto il suo grado di iconicità anche nella sua edizione contemporanea, quella che Renzi ha donato a Tim Cook, nonostante le differenze che la separano dalla versione storica: il manico è stato ammorbidito e alzato; la valvola, originariamente in ottone, ora è in acciaio; le scanalature presenti nel pomello un tempo non c’erano, e il logo che una volta era sulla base oggi è in alto. Modifiche che rispecchiano l’evoluzione del gusto, della tecnologia e dei processi produttivi. La seconda evidenza, più cruciale, riguarda il fatto che come simbolo della creatività made in Italy sia stato scelto un oggetto la cui storia è iniziata più di ottant’anni fa, in un’altra epoca. L’aneddoto diventa così l’occasione per porsi una domanda fondamentale: perché il design italiano, oggi, non riesce a concepire nuove icone? Come mai non vediamo più spuntare nel nostro Paese prodotti come la moka, così radicali nella loro unicità e riconoscibilità, quotidiani e senza tempo, capaci di cambiare antropologicamente i gesti e i rituali delle persone?
“La risposta più immediata”, scrive Alessi, “ma pure scorretta, è la facile imputazione al fattore distanza: saremmo storicamente troppo vicini alla produzione materiale in cui siamo immersi per poterne definire l’iconicità”. È vero, il tempo “concorre a confermare l’iconicità di alcuni oggetti e a irrobustirla”, ma non serve “una specifica distanza storica per individuare le icone”. Infatti, “che l’iPhone sia un oggetto icona del design si può dire senza grandi dubbi e senza che sia passato molto tempo dalla sua comparsa sul mercato”. La risposta corretta alla domanda, secondo Alessi, è che “non tutti i tempi sono fatti per partorire icone”. La tesi generale – e il discorso non vale solo per l’Italia – è che siamo a tal punto intrappolati nella nostra epoca da non riuscire a prenderne le distanze, incapaci di stabilire quel distacco necessario a creare una prospettiva in grado di unire presente, passato e futuro. E in particolare, nel passaggio dalla civiltà merceologica a quella digitale, il design italiano non è riuscito a sostituire le grandi icone legate alle tipologie tradizionali (lampade, sedie, radio) “con nuove icone da tasca, da cassetto, da scrivania o da desktop”.
Oggi sono i brand iconici globali, da Apple a Netflix, a soddisfare i desideri e i bisogni di milioni di consumatori, con un limite però: i loro dispositivi sembrano ancorati a un eterno presente, lo rispecchiano, lo inseguono e lo anticipano, senza fissare una forma che superi la prova del tempo. Per cui, mentre il “design storico vive nel nostro presente, il nostro presente difficilmente sembra poter creare un’immagine credibile e stabile di futuro da trasmettere”. La società che è emersa Dopo gli anni zero, per citare un altro libro dell’autrice, è profondamente diversa da quella del secolo scorso. C’è qualcosa di kitsch nell’epoca in cui viviamo, e non nel senso del cattivo gusto: è una questione di emotività, cerchiamo esperienze fortemente estetizzanti, prodotti che sappiano dare appagamenti immediati (“Nel regno del kitsch impera la dittatura del cuore”, scriveva Milan Kundera). Secondo Chiara Alessi, “non è che non ci si appassioni più agli oggetti. Tutt’altro. Il presente senza futuro è un tempo di perenni desideri e soddisfazione dei desideri, ma senza la metabolizzazione necessaria per trasformare quei desideri o bisogni istantanei in un sentimento più complesso e maturo. Oggi più che mai funzionano quelle ‘cose’ che non necessariamente devono funzionare e durare, ma sanno dare delle emozioni, anche istantanee, forti”.
Questa nuova concezione degli oggetti non può che modificare in modo sostanziale sia il mondo della produzione sia il modo di raccontare e comunicare il design. Molto probabilmente, i nuovi musei del design o i nuovi libri di storia dovranno fare i conti con oggetti che hanno vissuto storie brevi e periodi specifici. Forse l’idea stessa di “museo” come contenitore di prodotti rappresentativi dovrà essere rimessa in discussione rispetto a come l’abbiamo sempre concepita. I bisnonni di Chiara hanno nomi importanti: sono Alfonso Bialetti e Giovanni Alessi, industriali che hanno ideato degli archetipi duraturi. I nuovi oggetti-icona, come l’iPhone, sono pensati per essere periodicamente riprogettati e sostituiti da nuovi modelli, sempre più irresistibili, potenti e innovativi. Forse è giunto il momento di ripensare il significato di iconicità su cui si è fondata gran parte della storia del design.