19 Giugno 2015
La fotografia ha una luce calda e leggera. L’ha scattata Fabio Novembre e l’ha postata sul suo profilo Instagram. Accanto a Stefano Seletti, l’immagine ritrae Charley Vezza con borsalino scuro, barba giovane e rada, camicia a fiori slacciata sul petto. Ha il filo di occhiaie e la carnagione chiara di chi preferisce svegliarsi di notte: “Credetemi se vi dico che questi due sono il futuro dell’imprenditoria del design in Italia”, commenta Novembre. A 27 anni Charley Vezza è di fatto a capo del marchio Gufram, storica azienda piemontese nata nel 1966 sotto la direzione dei fratelli Gugliermetto, e diventata da subito un laboratorio creativo in grado di sfornare alcune delle principali icone del design italiano: il divano Bocca del 1970, la seduta Pratone del 1971 o il famoso Cactus del 1972. Fin dall’inizio, Gufram si propone come un marchio sperimentale in termini di forme, materiali (soprattutto poliuretano) e collaborazioni con esponenti della pop art e dei movimenti d’avanguardia degli anni Settanta. Nel 2009 la società, già di proprietà di Poltrona Frau Group, viene affidata a Cassina. Del 2012, infine, è l’acquisizione del marchio da parte dell’imprenditrice piemontese Sandra Vezza, che lo affida all’unico figlio, Charley, ovvero al futuro dell’imprenditoria del design italiano secondo Fabio Novembre: “Il bello è che Fabio ci crede davvero”, ride Vezza. “E lo dice in senso un po’ lombrosiano, perché crede molto nelle facce della gente. Quanto a me, ci sto provando”.
Tutto nasce da tua madre che, pur essendo già a capo di un’azienda leader nella produzione di gelatine industriali, tre anni fa realizza un sogno e acquisisce Gufram. Che rapporto si stabilisce con una mamma imprenditrice?
È la mia migliore amica, non ha mai avuto il ruolo classico della madre. Credo fermamente che sia un genio, una donna dall’intelligenza eccezionale. E poi non si stanca mai, fa davvero tutto da sé, non ha nemmeno una segretaria. È vitale, energica, straordinaria, ma completamente matta. Mi chiedo sempre come sia possibile che nella stessa famiglia ci siano due persone fuori di testa.
La pazzia è ereditaria, non lo sapevi? Ma tu cos’hai che non va? Partiamo subito con la confessione.
Anche io ho le mie disfunzioni, ma di segno opposto. Siamo completamente diversi, diciamo che siamo sempre andati d’accordo su tutto, tranne che sul lavoro. Abbiamo avuto divergenze per anni, ma da quando non viviamo più insieme le cose sono cambiate.
Non vi accomuna la stessa passione per il design?
In realtà, io ho sempre avuto la passione per il bello, mi definirei un esteta. Il design invece è una passione di mia madre, che mi ha coinvolto volente o nolente. Anzi, a dirla tutta non è che mia madre abbia una passione per il design, è che ha sempre e solo avuto una passione per Gufram. Non si è mai interessata al design scandinavo o ai maestri italiani. Gufram è stato il suo unico amore, una vera ossessione.
Tu come hai vissuto questa mania?
La passione per Gufram è iniziata quando io avevo dodici anni. Prima aveva comprato dei singoli pezzi, come il Cactus, senza mai avere il tempo di dedicarcisi veramente.
Cos’hai pensato quando hai visto per la prima volta il Cactus?
E a chi non piace il Cactus? È un oggetto così semplice che può piacere anche a un bambino, poi crescendo capisci che è un simbolo fallico. Comunque, quando lo vidi per la prima volta nell’ufficio di mia madre lo apprezzai soprattutto come perfetto attaccapanni.
E col tempo la passione per gli oggetti è diventata interesse per l’azienda.
Per anni ho pensato che non era normale una cosa del genere, che questa mania nascondeva una sorta di feticismo. L’acquisizione di Gufram è avvenuta tre anni fa, ma era da dieci anni che mia madre ci provava.
Cos’hai pensato quando ce l’ha fatta?
Comprare Gufram è stato il gesto più feticista ed egoista della storia. Si tratta semplicemente di una collezionista talmente innamorata di un’azienda da riuscire a comprarsela.
Come la prese la prima volta che fallì l’acquisizione?
In realtà, non le hanno mai detto di no. Il fatto è che aveva tante altre cose da fare, non era la priorità della sua vita. Se glielo chiedi ora ti risponde: “sapevo che un giorno sarebbe stata mia”. Ma quando è passata al gruppo Poltrona Frau, sembrava che non ci fossero più possibilità.
Di te lei dice che stai crescendo a vista d’occhio.
Ho sempre imparato in fretta, tranne che a scuola. Lì ero tremendo, l’ho odiata fin dalle elementari, anche perché avendo il deficit dell’attenzione non riuscivo a seguire una lezione intera. Così ho sempre cercato di frequentarla il meno possibile, mi segnavo i giorni obbligatori e non ne facevo uno di più.
E cosa facevi invece di andare a scuola?
Andavo in azienda, ma mia madre mi diceva che se non fossi andato a scuola non avrei più potuto andare nemmeno lì. E quindi ogni tanto mi toccava.
Cosa fa un bambino in una azienda di produzione di gelatine industriali?
Mi piaceva stare con i meccanici. Seguivo gli addetti alla manutenzione, i muratori, stavo sul muletto. C’erano i più anziani, quelli che erano lì da vent’anni, era bellissimo.
Ma ti preparavi la cartella anche per andare in azienda?
Per me era un grandissimo parco giochi, mi piaceva perché potevo chiedere un sacco di cose. A scuola era il contrario, dovevi stare attento e solo dopo potevi fare domande. Infatti, gran parte della mia formazione è avvenuta su Internet. Dai 14 ai 20 anni ho navigato almeno sei ore al giorno, leggevo Wikipedia, finivo sui blog. A quel tempo ero appassionato di design e di tecnologia e mi ci dedicavo con grande intensità: sai, ho la sindrome di Asperger, una sorta di autismo che si supera con la crescita, ma che comporta poca empatia, interessi ossessivi, un modo di comportarsi diverso.
Mi hai detto che con tua madre siete uno l’opposto dell’altro, però l’ossessione resta.
Diciamo che è una questione di attitudine, lei persegue i suoi obiettivi da sola, a me piace circondarmi di persone fidate. Se io delego, lei cura ogni dettaglio personalmente. Se mi chiede di parlare con qualcuno, mi dice esattamente le parole che devo usare, a volte è insopportabile.
Come ti sei ritrovato a capo di Gufram?
Il primo desiderio di mia madre è sempre stato quello di creare nuovi prodotti ed esprimere la sua creatività. Ma aveva bisogno di una mano.
Quindi?
All’epoca vivevo a New York dove fondamentalmente non facevo niente, a parte divertirmi e imparare l’inglese. Allora mia madre mi chiama e mi dice: “Charley, ho comprato la Gufram”.
Mia madre mi chiama quando compra il detersivo in offerta. Sei fortunato.
Lo so. Lei continua: “Ho comprato la Gufram e ho bisogno di te, torna in Italia”. Da New York le mie parole sono due: “No way”. E lei con tutta la tranquillità di questo mondo mi dice: “Allora da domani l’appartamento te lo paghi tu”.
E tu fieramente rispondi…
Mamma, quand’è il prossimo volo per l’Italia? (ride). Lei ovviamente mi disse che ero libero di fare quello che volevo, ma da quel momento avrei dovuto cercarmi un lavoro.
Cosa pensi del tuo lavoro?
Faccio il più bel lavoro del mondo, anche perché Gufram è un’azienda a cavallo tra il design e l’arte. Prende il meglio dai due mondi, ma non si occupa della parte noiosa dell’architettura, dell’arredo, e non si lega al mondo delle gallerie.
Cos’è il design?
È una domanda complessa, però se me lo chiedi rispetto alla nostra azienda ti dico subito che Gufram non fa design.
Alè.
Il vero design è quando perfezioni qualcosa migliorando la vita delle persone. Design è cambiare la funzione di un tavolo e il modo di vivere di chi lo usa, in sostanza fare innovazione. Gufram invece da un certo punto di vista è anti-design. Trattiamo oggetti la cui funzionalità è già stata pienamente soddisfatta. Si può dire che facciamo cose che non servono a nessuno, ma non è così, c’è un però.
Ovvero?
Saremmo inutili se la bellezza non fosse importante, ma la bellezza è tutto, bisognerebbe insegnarla nelle scuole insieme all’educazione civica.
Quali sono i tuoi gusti?
Sono sempre in imbarazzo quando mi fanno questa domanda, perché nel design e nella moda a me piace un po’ tutto. Mi spiego: mi piace quando una cosa funziona dalla A alla Z, quando sento una certa coerenza, quando qualcuno racconta una storia con forza. Credo molto nell’abbigliamento, mi piacciono i brand coerenti, come Rick Owens, di cui non riesco a indossare nulla e che non è nemmeno di mio gusto, ma che ammiro moltissimo.
Fammi altri esempi di coerenza.
Mi piace molto Cappellini, un brand che propone tante cose diverse e che trova la sua coerenza nella progettualità più esasperata. Mi interessa la sua identità, il desiderio di spingere all’estremo la ricerca del materiale. Fa collezioni molto diverse l’una dall’altra, ma tutte perfettamente coerenti. È l’unica azienda che riesce a farlo, gli altri non ci sono mai riusciti.
E gli incoerenti?
Non è mai bene parlare male degli altri.
Non pensare sempre al design, parliamo di politica. Tu cosa voti?
Ti devo dire la verità, saranno dieci anni che non voto. Ho votato la prima volta a diciott’anni e poi basta.
Tu devi votare. Giustificati.
Gli imprenditori fanno qualcosa di politico ogni giorno. Non voto perché non mi riconosco in nessuno e credo poco nella professione del politico così come viene comunemente intesa. E poi non sono un grande fan della democrazia.
Charley, il tiranno.
Credo che la democrazia sia il modo migliore per governare un paese, ma talvolta vorrei un governo di illuminati, di migliori. È un discorso molto delicato e non vorrei sembrare un aspirante dittatore, però ritengo che per poter votare si dovrebbe superare un test. Poi magari sarei il primo a non superarlo, sia chiaro. Ma il punto è che per votare dovresti essere fermamente convinto di dare il tuo voto a uno migliore di te, in grado di amministrare la cosa pubblica meglio di altri e con onestà.
Altre cose da dichiarare?
Ero maschilista e credevo nella superiorità dell’uomo. Ma mi sono ricreduto.
Scusa, ma con una donna come tua madre, che ti ha cresciuto da sola portando avanti una grande azienda, come ti è venuta in mente una cosa del genere?
A prescindere da mia madre, lo vedo nelle persone con cui lavoro. Il livello professionale delle donne sta crescendo in maniera incredibile. Fra due secoli noi faremo i papà a tempo pieno e voi ci sostituirete in ogni campo. Però se posso dare un consiglio alle donne: Be stupid! A volte si ottiene di più nascondendo la propria superiorità.
Cambiamo discorso. Tua madre oltre all’azienda e a Gufram, fa anche il vino a Barolo.
Quella del vino è una storia interessante, soprattutto perché mia madre è astemia. Viene dall’Alta Langa, un’area conosciuta per le nocciole, ma non vorrebbe essere da nessun’altra parte al mondo se non a Barolo. New York le fa schifo, Venezia le fa schifo, tutto le fa schifo e per amore di questo posto si è convertita al mondo del vino.
Le monomanie di cui mi parlavi prima. E tu che ruolo hai in azienda?
Io sono Global Creative Orchestrator, definizione trovata su un generatore casuale di job title online. In realtà faccio tutto, l’azienda è piccola e devi saper fare ogni cosa. Sono molto curioso, mi piace caricare e scaricare i furgoni, parlare con i designer, credo molto nell’organigramma piatto. Poi a un certo punto subentrano le mie capacità e le mie strategie, ma bisogna saper stare dove si fanno le cose.
E tua madre?
Lei rimane la signora, quella che telefona una volta alla settimana, ma non ha nessun ruolo operativo. Prima condividevamo le scelte stilistiche, ora le faccio delle sorprese.
Il New York Times ha parlato del cactus che girava per Venezia all’apertura della Biennale.
È un prodotto su cui abbiamo puntato molto, perché è un’icona e io voglio portare la gente a riconoscere l’azienda. I miei progetti più riusciti sono quelli in cui contamino l’identità di Gufram, pop, colorata, morbida e divertente, con quella di un determinato designer.
Ad esempio?
Quelli di Studio Job sono pazzeschi. Sono kitsch, sono déco, lavorano con legni pregiati, ottone, incisioni. Insieme abbiamo prodotto Globe, l’armadio cabinet con un mappamondo in poliuretano.
Qualche anticipazione?
La collaborazione con André Saraiva, street artist mezzo svedese e mezzo portoghese che vive a Parigi, conosciuto come Monsieur A. È la prima volta che Gufram si fa ispirare dalla street art, il movimento artistico che sento più mio e che contamineremo con la pop art. Nei prossimi mesi da questa collaborazione nascerà una seduta morbida e curiosa.
Nel frattempo siete appena rientrati da New York.
Siamo stati invitati alla terza edizione della Collective Design Fair a Soho, nell’ambito di NYCxDESIGN. Ci hanno assegnato uno spazio bianco, pulito, perfettamente rifinito, dove abbiamo presentato il progetto fetish-pop in cui portiamo il feticcio all’estremo, anche dal punto di vista sessuale. C’erano i nostri oggetti più sexy, quindi il divano Bocca Dark Lady, Nerocactus e una serie di artwork con riferimenti al sesso.
Dai grandi classici alle novità, quante anime ha Gufram?
Gufram è costituita da due realtà, una è la Limited Edition che comprende le tante icone che fanno ormai parte di un patrimonio culturale comune e che sono esposte nei più grandi musei del mondo: dal MoMA al Pompidou, passando per la Triennale e il Vitra Design Museum. Si tratta di vere e proprie sculture in poliuretano verniciato che il signor Giacomo modella a mano da cinquant’anni.
E poi c’è la vostra anima popolare.
C’è la linea che io chiamo un Pop per tutti, ovvero una serie di oggetti colorati e divertenti che però hanno una funzionalità ben precisa: una sedia che è una sedia, un divano che è un divano. Sono prodotti che puoi utilizzare per arredare un locale o un evento. Sempre a New York abbiamo presentato all’evento WantedDesign la sedia Bounce di Karim Rashid, in diversi colori e realizzata con il materiale espanso super leggero XL Extralight®.
Bilancio finale, sei contento di essere tornato?
All’inizio mi divertivo ad andare in giro con Fabio Novembre oppure a progettare e chiacchierare insieme a Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari di Toiletpaper. Ora ho capito che bisogna essere più concreti, che il segreto è fare. È anche per questo che non parlo mai male di nessuno, perché credo molto in chi fa. Il processo di learning-by-doing è fondamentale: chi fa, fa girare le cose, crea posti di lavoro, porta investimenti e fa crescere il Paese.
Vedi che alla fine anche questo è fare politica. La prossima volta vai a votare, promettilo.
Va bene, vedremo