24 Luglio 2013
Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone.
Italo Calvino, Le città invisibili (V capitolo: Le città sottili, 5)
Mentre mi avvicino al Padiglione di Rietveld ai Giardini, il mio sguardo si posa sulle pareti mosse, spezzate della superficie esterna dell’edificio. La griglia di linee orizzontali e verticali dei finestroni centrali tradisce un rigore e una geometria tipicamente neoplastici – il ritmo cadenzato dell’architettura della facciata mi ricorda la dinamica vitalità del reticolo di forme colorate di Broadway Boogie-Woogie, una delle ultime tele dipinte da Piet Mondrian. L’albero che precede l’ingresso, invece, mi riporta col pensiero a uno dei primi lavori del pittore olandese, L’albero grigio: qui, il tronco inarcato e i rami privi di foglie si confondono in un cielo sporco, livido. È un’opera tormentata, dai toni cupi – distante anni luce dalla rassicurante armonia matematica della successiva produzione De Stijl.
Finte pagine di giornale tappezzano le finestre dell’ingresso del padiglione: i fogli riportano tutte le parole del vocabolario inglese, citate una sola volta; immagini nebulose e indistinte – fotografie ravvicinate di un’informe materia polverosa – corredano tale assemblage linguistico. È con questo lavoro che Mark Manders introduce il visitatore alla sua retrospettiva, dal titolo Room with Broken Sentence: la parola “broken” preannuncia una rottura, un trauma, una situazione interrotta. Forse, allude al ritmo spezzato dell’architettura neoplastica del padiglione – e quindi, di rimando, alla griglia geometrica modernista, composta da linee tronche, recise e poi trasformate in segmenti ortogonali. Oppure, l’interruzione cui fa riferimento Manders non è altro che quella insita nel carattere discontinuo del linguaggio – un flusso irregolare di parole singhiozzanti, incapace di rappresentare il volto continuo del mondo.
All’interno del padiglione, interruzioni e fratture dilaniano le superfici delle sculture: teste femminili interrotte da assi di legno fanno da contrappunto a uno scrittoio su cui si erge un’enorme testa in resina squarciata da travi verticali; accanto, vi è un tavolo a forma di balestra, sul punto di scagliare un dardo di aspetto simile a quello di una cariatide monca. Tali inserti, queste protesi materiali, tuttavia, non provocano disarmonie o dissonanze: la frattura genera simmetria, equilibrio – proprio come nei dipinti di Van Doesburg o nelle architetture di Rietveld.
Poco oltre, m’imbatto in una scultura composta da due fili di rame appesi a un chiodo. Le estremità dei fili pendono verso il basso, come se fossero soggette a un’intensa forza di gravità: in realtà, è l’artista che ha piegato faticosamente le due asticelle di metallo, allo scopo di conferire agli oggetti un aspetto elastico, malleabile – una versione contemporanea dell’orologio molle di Dalí. Il nome che l’artista ha dato al lavoro è Short Sad Thoughts: sono i calchi di due pensieri tristi, reclinati all’ingiù come due piccole, esili lacrime. Tutta quanta l’arte di Mark Manders si propone di materializzare quello che esiste soltanto nella mente o in un altrove difficilmente accessibile. La sua è una scultura di sogni, pensieri e immagini interiori: è proprio questo a darle un carattere sospeso, enigmatico, quasi perenne – come le composizioni geometriche di Mondrian, capaci di rivelare l’invisibile struttura dell’universo e del pensiero.
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