17 Luglio 2013
Se Armilla sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni…
Italo Calvino, Le città invisibili (III capitolo: Le città sottili, 3)
English Magic è il nome della personale di Jeremy Deller al padiglione inglese ai Giardini. La magia cui allude il titolo ha ben poco di esoterico o paranormale: si tratta, piuttosto, di una “magia” realistica, ragionevole, profondamente radicata nel presente e nel passato recente di una nazione, la Gran Bretagna. “Magia” è un modo per indicare un insieme di suggestioni visive, in bilico tra verità e finzione, realtà e possibilità. Il padiglione ospita un allegro (almeno all’apparenza) ritratto corale di un paese; offre una sintesi esilarante di quella che si è soliti definire Britishness – l’essenza di ciò che è, o si ritiene essere, specificatamente inglese.
Non appena varco la soglia dell’edificio, mi accoglie un’enorme albanella reale dipinta su una parete; il volatile stringe tra gli artigli un Suv in miniatura. È un aneddoto a ispirare il lavoro: nel 2007, il principe Harry insieme a un amico è sospettato di aver abbattuto una coppia di albanelle reali, uno dei rapaci più rari in tutto il Regno Unito. Il dipinto rievoca ironicamente l’accaduto: l’uccello iracondo pare vendicarsi su una Range Rover di passaggio. Proseguo nella stanza successiva, dove trovo un altro grande murale: vi è rappresentata la figura colossale di un uomo – le cui fattezze ricordano un moderno Poseidone – che scaglia nelle profondità marine un panfilo di lusso. Si tratta di William Morris, il designer socialista di epoca vittoriana fondatore delle Arts & Crafts; lo yacht che afferra tra le mani riproduce quello di Roman Abramovic, ormeggiato due anni fa lungo il molo dei Giardini di Venezia – simbolo della deriva capitalistica osteggiata da Morris e dai suoi seguaci. Oltrepasso una Tea Room, dove è possibile rifocillarsi con una tazza di tè, per poi sbucare nella stanza che ospita il nuovo video dell’artista, Ooh-oo-hoo ah-ha ha yeah. A fare da colonna sonora è una musica eseguita dalla Melodians Steel Orchestra di Londra, incisa negli studi discografici di Abbey Road – l’ennesima nota British della mostra. Il film mostra in successione l’azione di un demolitore mentre pressa la carcassa di una Range Rover (richiamo all’albanella reale e alle Compression d’automobile di César), una parata comunitaria tra le strade di Londra e, infine, le acrobazie di alcuni ragazzi su un tappeto gonfiabile che riproduce in versione pop il complesso di Stonehenge.
Il jingle musicale del video risuona per le sale del padiglione – ora pare assumere una nota aspra, stridente. I lavori di Deller, contrariamente a quanto si possa pensare a un primo sguardo, sottendono una realtà allarmante, dai risvolti sinistri. In una delle stanze, l’artista espone le fotografie del tour britannico di Ziggy Stardust compiuto da David Bowie nel 1972, insieme a una mappa delle diverse tappe toccate dalla band. È in quell’anno che una grave crisi economica, sociale e politica si abbatte sull’Inghilterra – è a questo che alludono le inquiete fotografie della folla dei fan. Il dramma – in questo lavoro come in tutti gli altri – è soltanto accennato, mai manifesto. Persino gli stendardi all’esterno del padiglione sembrano rammentarmi tale senso di smarrimento, riportando le parole tratte da una delle più celebri canzoni di Bowie: I searched for form and land, for years and years I roamed.
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